C’è qualcosa d’antico e di nuovo insieme,
nelle sculture ceramiche di Pietro Weber. Ammirando queste fascinose, e misteriose,
terrecotte invetriate in alcuni casi ci sovviene il ricordo della Dea dei Serpenti. La statuetta in
ceramica policroma, alta soltanto 34 centimetri, ritrovata nel Tesoro del
Tempio di Cnosso sull’isola di Creta; un reperto archeologico dell’Epoca Minoica
Neopalaziale, databile al 1750 avanti Cristo. Una deliziosa figurina femminile che,
quando noi eravamo studenti del liceo, trovavamo molto sensuale (addirittura sexy)
perché la dea alzando entrambe le braccia e brandendo a mezz’aria i due
serpentelli saettanti, nel compiere quel gesto rituale, ostentava i seni tondi
e ben torniti che sbocciavano da un elegante corpetto molto attillato, sotto al
quale si apriva un’ampia gonna a balze, lunga fino ai piedi.
Pietro Weber reinterpreta più
volte quest’icona in chiave contemporanea, dando al volto l’aspetto di una
bambolina da teatro dei pupi, e trasformandone la gonna in un cono d’acini
ceramici, evocativi di una fertilità affollata da tante uova.
A questa compositività che mescola e fonde tradizioni
antiche con una disincantata e gioiosa Weltanschauung
post-moderna, Weber aggiunge lontani echi di sculture e culture orientali, dall’India
alla Birmania, ma anche tipologie e iconografie coroplastiche tipiche dell’Anatolia,
della Dacia, dei Cleti e soprattutto dei Reti, “popolazioni che più di 2000
anni fa abitavano i confini dell’Impero Romano”, come scrive il più affezionato
e preparato mentore di Weber, il critico d’arte trentino Marcello Nebl. Ma ci
sono anche altre evocazioni che spaziano dall’Africa Nera ai buccheri etruschi,
dai vasi canopici egizi alle urne cinerarie barbariche, per arrivare fino al neoprimitivismo
di certe teste stilizzate alla Modigliani. Weber tutto questo suggella con un’originale
e autonoma scelta stilistica connotata dall’uso virtuosistico dei colori invetriati,
quasi sempre a monocromo, dal rosso cadmio al verde smeraldo, dall’azzurro turchese
al giallo. Colori vividi stesi su queste quelle sculture plasmate a mano,
lasciando ben visibile l’imprecisione del gesto e certe volute sbavature di
colore, sotto il quale la terracotta grezza affiora come colore essa stessa, in
un’esaltazione di questa materia primigenia, vera e propria plastica dell’antichità,
fragile e duttile e nel contempo dura e durevole come la pietra, elegante nella
sua adattabilità, e utilissima nelle sue tante forme di funzionalità.
Anche se queste opere sono fatte
per non servire a nulla, né a contenere liquidi né tantomeno alimenti, ma
l’unica loro vera specificità è la bellezza, ricercata in un elegante calembour
di aggetti, di anse sinuose, di beccucci, bugnati e modellati spericolati con fossero
sottili fili metallici o di bronzo fuso. Questo gioco s’accentua negli
ultimissimi lavori presentati da Pietro Weber al Castello di Agliè, dove espone
in anteprima al pubblico le sue Sentinelle.
Sculture alte poco più di un metro, svettanti e modellate sovrapponendo
svariati elementi: testoline minuscole e corpi astratti, alternati uno
sull’altro fino alla sommità, dove in molti casi svetta una faccina con la
bocca spalancata e gli occhi tristi, tanto da sembrare un arguto omaggio a
Giacometti, ma, nella visione d’insieme, anche la consapevole citazione delle
sculture totemiche degli Indiani d’America.
In tutto ciò, Weber, usa sempre uno
stile colorato e giocoso, l’esatto opposto di cerca criptica e ostica arte
contemporanea elitariamente iperconcettuale. Tanto che queste sue “Sentinelle” sembrano
sorvegliare il presente con i piedi e le radici saldamente affondate in un lontano
passato archeologico, ma hanno gli occhi puntati verso il futuro che si apre davanti
a Noi.
Guido Curto
MORE INFO: www.pietroweber.it
Nessun commento:
Posta un commento